Il caso di JEFFREY DAHMER
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Oggi proviamo a parlare di un telefilm da trattare con i guanti. Iniziamo!
Oggi quindi parliamo di una serie tv, uscita il 21 settembre 2022, che non volevo condividere qui perché non so se riuscirò bene a raccontare quanto penso. Ovviamente il motivo è semplice, la storia è tratta da un evento realmente accaduto, quindi tutto questo giro di parole per dire che parlerò della serie provando a esprimere tutto il rispetto possibile per chi invece è familiare delle vittime di questo assassino.
Parliamo quindi di “Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer” e come dicevo, è una storia basata sulla biografia di Jeff Dahmer, un serial killer, cannibale che ha vissuto e operato nel Wisconsin tra il 1970 e il 1990. La serie è di 10 episodi e la durata di ogni episodio varia dai quaranta minuti all’ora piena.
Siamo a Milwaukee ed è il 1991 quando Jeffrey Dahmer viene arrestato dalla polizia.
Così si apre la storia, con quello che solitamente è l’ultimo tassello di una indagine e che dovrebbe arrivare sulla fine, o sul cambio del climax, arrivando alla parte finale col processo e il carcere. Invece qui siamo già nel momento concitato dell’arresto e non sappiamo ancora il perché. Sembra si smonti tanto il tutto.
Non c’è il mistero, non c’è il ritrovamento dei cadaveri, del modus operandi. Non c’è la ricerca di indizi, il delinearsi di un profilo, come ci ha insegnato invece Criminal Minds.
Da qui si torna indietro, ma non facciamo dei viaggi in flashback fini a se stessi. Il passato di Jeff, le sue azioni più efferate, le scopriamo in relazione alle domande, agli interrogatori, alle relazioni con i genitori e con una rosa di personaggi che fanno parte attiva di questa narrazione, costruendola così con un tono molto compassato, che poi accelera man mano seguendo l’evoluzione delle pulsioni di Dahmer, cadendo con lui in quella spirale di follia omicida.
Per gran parte della serie la sensazione è quella di disgusto. La condizione mentale dell’assassino, le sue gesta, il modo con il quale si relazione alle vittime e prima ancora ai genitori, quello che scatta nella sua testa è inquietante, angosciante e allo stesso interessante, ma disarmante.
Come dicevo, non è possibile parlare di questo telefilm con leggerezza, perché si può incappare in incidenti poco rispettosi della situazione e del lutto dei parenti delle vittime, è una storia maledettamente vera. Ma quello che da qui esce, è una serie di considerazioni che la produzione è riuscita a mettere in luce e sono tutte legate al contesto storico, sociale, familiare di Jeff Dahmer.
Storico e sociale, perché siamo ancora in quella società americana dove se un nero chiede aiuto alla polizia, non è preso sul serio. Scompare un nero, non è importante, non ha risonanza, a chi vuoi che importi. Poi se ci metti che gli scomparsi sono anche gay, apriti cielo, etichetta che si somma ad etichetta e che ti bolla come irrecuperabile già ancor prima di muovere un dito.
Familiare, perché Jeff non ha avuto un’infanzia e una adolescenza equilibrati, con un padre perennemente assente, relegato in ufficio e figura mitologica in casa. E della madre si potrebbero scrivere libri e libri di psichiatria, con tutte le turbe, la depressione, gli psicofarmaci che assumeva e sospendeva senza un reale senso, sommati all’insoddisfazione personale, alla profonda infelicità in cui viveva e a una certa dose di manie di persecuzione e vittimismo.
La storia non è semplice e a questo si aggiunge un bambino introverso, chiuso, che qualcosa deve aver ereditato dalla madre o che dalle sue pillole, in gravidanza, devono aver rotto in lui ancora feto. Anche il suo legarsi al padre attraverso le passioni dell’uomo, quando magari sarebbe stato meglio il contrario, vista l’età e quindi ecco la tassidermia, la eviscerazione e una serie di cose che per gli adulti, per certi adulti, può essere anche normale hobby, mentre praticato da un preadolescente ha dato inizio a chissà quale incubo inespresso che Jeff si portava dentro.
E la produzione sembra quindi passare in rassegna la biografia più intima dell’assassino, dandoci elementi per comprenderlo, esaminarlo, ma mai una volta, mai una, ci ha dato, a mia impressione, elementi che ci facciano pensare che si è tentato di capirlo e difenderlo, relegando così le sue azioni e le sue vittime come effetti collaterali di una mente malata ma certo non colpevole. No, anzi. La questione è aperta ed è palesemente dibattuta in tutta la vicenda.
Lascio a voi quindi immergervi in questo scenario che ha del surreale, non solo per le cose fatte dal cannibale, ma soprattutto per come lui stesso si sia sempre accusato da solo, chiedendo poi lui stesso la pena capitale. E mi concentro su altri elementi.
Se non guardiamo alla mente malata di quest’uomo, ci sono elementi tecnici che saltano all’occhio, come la fotografia, veramente spettacolare, con quel sapore che, assieme all’arredamento, al vestiario, ci riportano indietro negli anni. Una serie di dettagli d’epoca, dal sapore oggi vintage, che sono ricostruiti minuziosamente e che funzionano in una cornice quasi nostalgica e che poi si fa da incubo.
E dell’attore protagonista, Evan Peters, si hanno solo parole positive, perché è stato grandioso. Insopportabile, insofferente, come perennemente depresso, ma poi scattava feroce. Anche nei momenti più cruciali, in cui pensava di avere effusioni di affetto, ciò che invece trasmetteva era tutta l’assenza e l’incapacità di Dahmer a non sapersi relazionare e a dover uccidere anche solo per poter abbracciare qualcuno.
Persino le rivelazioni fatte dal padre e le sue reazioni alle confessioni del figlio, lasciano sbigottiti, increduli, ma anche affascinati per come la mente umana possa funzionare o mal funzionare.
Ci sono veramente tanti elementi che, anche se solo accennati dalle personalità venute fuori dall’interpretazione degli attori, anche se per poco, riescono a rendere il tutto assurdamente e incredibilmente veritieri, forti, tanto da disgustare, da far accapponare la pelle e non lasciarci quindi immobili a cotanta visione di violenza e sofferenza.
Non si riesce quindi a patteggiare per l’assassino, ma si riescono a capirne i motivi. Capirne non significa condividere e approvarli.
Non ne esce bene, Jeff Dahmer, nella realtà, come nel telefilm. E non ne esce bene sicuramente nelle risonanze che riceviamo noi, non si fa il tifo per lui, ma si ottiene però una fotografia della società e un’altra, più nebulosa, della mente umana.
E speriamo almeno che il memoriale tanto sperato dalla signora Glenda Cleveland possa prendere vita ora che il telefilm ha risvegliato il caso e rimesso in discussione quanto accaduto, non per la gloria di un pluriomicida reo confesso, ma per la memoria delle vittime e la pace dei loro parenti.
Vi aspetto ora nei commenti qui sotto, ditemi la vostra, ma fatelo con tutto il rispetto del caso e con la giusta educazione e tatto. Ditemi un po’ voi quali sono stati gli elementi che vi hanno incuriosito, quelli che vi hanno disgustato e ancora quelli che invece hanno fatto saltare ai vostri occhi la personalità di Dahmer.
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