E poi basta
manifesto di una donna nera italiana
#LASETTADEILIBRI
Oggi torniamo a vestire i panni della Setta dei Libri per la lettura di febbraio 2021. Iniziamo!
Il libro di cui parliamo oggi è “E poi basta, Manifesto di una donna nera italiana“, lettura mensile per La Setta dei Libri, è scritto da Espérance Hakuzwimana Ripanti, per People Storie, 2019. Costo di 15€.
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Parliamo davvero brevemente di Espérance Hakuzwimana Ripanti è nata nel 1991 in Ruanda, in Africa centro-orientale, tra l’Uganda, la Tanzania, il Burindi e la Repubblica Democratica del Congo, nel periodo nel quale nel paese si consumava il genocidio d’odio inter-etnico, di più di un milione di vittime, in prevalenza Tutsi e Hutu.
Espérance ha vissuto in orfanotrofio e a quattro anni è stata adottata da una famiglia italiana.
Ha quindi vissuto ed è cresciuta a Brescia. Nel 2015 si trasferisce a Torino per frequentare la Holden ed è grande appassionata di lettura, autodefinendosi una “attivista culturale”.
Ma per conoscere meglio la Ripanti, è d’obbligo entrare nel suo libro, quello scelto per questo mese di febbraio.
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E poi basta, manifesto di una donna nera italiana, è un libro molto diverso da tanti che io ho letto nel corso del tempo. Non è un romanzo, non è narrativa e nemmeno saggistica e certamente non può definirsi un manifesto programmatico.
A partire infatti dalla scrittura, dal modo col quale Ripanti scrive, diventa difficile per me collocarlo, se non nella sfera variopinta dei racconti semi-epistolari e non solo perché al suo interno vi sono delle lettere indirizzate ad un “amore lontano” e in pericolo, ma perché sembra quasi più un diario, un elenco di memorie, anzi un susseguirsi di memorie dell’autrice, che cammina nel suo passato, nel passato culturale italiano, riporta osservazioni personali su esperienze vissute tramite la lettura e sulla sua stessa pelle e in parte indaga sul fenomeno che racconta.
Diventa in effetti ancora più difficile parlare di questo libro, perché non c’è una storia da raccontare, un qualcosa di inventato su cui mettere le mani e dire la propria, ma è una porta aperta per accedere nella visuale della giovane scrittrice. Penso quindi che, per potersi calare al meglio in queste pagine, bisogna ancor più spostarsi dalla propria posizione e dal proprio pensiero, per fare propri i pensieri e le sensazioni della Ripanti.
Mettere i suoi occhiali, anche se non ne ha, per poter vedere con i suoi occhi.
Quello che ne vien fuori è un racconto apparentemente confusionario, che salta dal presente della cultura e della società occidentalizzata che continua a dirsi civile e civilizzata, per poi passare dai ricordi e memorie dell’autrice, combinando le due cose in risposta a ciò che elabora visceralmente e con la ragione del suo intelletto, arrivando alla sezione delle epistole che si pongono come interrogativo: chi le scrive, a chi sono scritte? Chi è questo amore che è incarcerato e di cui neanche arriva tutto, perché sottoposto a controllo e censura? E dove vuole arrivare la persona che scrive, con questo suo crescendo di enfasi finale?
Il racconto sostanzialmente è quello di una giovane ragazza dalla pelle scura, che si trova nella società italiana, in quel nord già notoriamente (stereotipizzato o archetipico) del razzista già contro gli italiani del sud, figurarsi contro quelli che apertamente hanno l’enorme differenza di una pelle dal colore differente.
Quando Espérance, adottata, inizia a crescere in Italia, lo fa come una delle tante bambine italiane, imparando la lingua, studiando, intessendo i suoi rapporti con le prime amichette. Ma per lei la cosa ha quella marcia in meno e non perché abbia problemi di apprendimento o di socialità, ma perché ha la grande etichetta tatuata in faccia, dello straniero, della novità esotica, dell’entità di cui bisogna temere le origini e i motivi per cui è qui, a “casa nostra”.
Sin da piccola, Espérance è costretta a misurarsi in un mondo di bianchi che si professano aperti al multiculturalismo, ma che in realtà vedono in malo modo la novità e la differenza a quella omologazione bianca che diventa suprematismo bianco, che già da ragazzina subisce.
Sono molti infatti gli esempi, ma più che esempi sono proprio rievocazioni di terrori del passato, che hanno segnato l’autrice e che lei riporta su carta, con i quali ci mostra cosa abbia dovuto subire: il parlare bene l’italiano, come fosse una cosa rara, o la meraviglia degli altri al pari nello scoprire che non ricorda la lingua del suo paese d’origine o il fatto che non abbia il desiderio di ritornare per scoprire e riscoprire i luoghi dell’infanzia.
E ancora, le occasioni di sfregio e di derisione che ha subìto a causa di chi la etichettava solo per il colore della pelle, senza andare al di là dell’esteriorità, perdendosi tutto il ripieno e la sostanza, l’essenza di una ragazza che proprio durante l’adolescenza si forma e si crea.
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Ma è anche vero che questo libro ci spinge a metterci nella pelle di Espérance.
Ci dice, senza proporlo, di metterci al suo posto e di vivere un suo giorno come fosse il nostro. Di affrontare quello che i neri subiscono ogni giorno, come figli di nessuno, figli di una terra diversa, lontana, che non ha il sapore elettrizzante dell’esotico, ma di chi viene a casa vostra a rubarvi le cose che non vi siete guadagnati se non perché siete nati dal lato fortunato e prepotente del pianeta.
Ci invita a fare esperienza del dolore, dell’essere messi da parte, etichettati, derisi, dal rendersi conto che sostanzialmente in realtà non c’è proprio nulla di diverso, di strano, di inumano. Perché magari noi bianchi siamo talmente abituati a vivere come padroni di tutto, come se il mondo fosse solo nostro e i diversi siano inferiori e peggio presenti a soddisfare i nostri scopi, da dimenticare che non è così, assolutamente.
Di mio, in questa lettura ho notato come sia facile perdersi negli stereotipi e come possa esser stato facile per la scrittrice rischiare questo, ma anche di come non sia assolutamente accaduto, perché è il dolore, la rabbia a muovere la penna di Espérance, almeno dal mio punto di vista.
Perché nel vestire la sua pelle, mi sono accorto di come l’occidente si sia facilmente abituato alla propria normalità, dove l’omologazione della moda, del pensiero, del colore, sia la costante oltre la quale è bene non alzare la testa o si viene automaticamente bollati ed esclusi.
Di come per noi sia tutto a portata di mano, a partire dai diritti e dalle occasioni.
Di come ci sentiamo i primi in tutto, soprattutto se siamo maschi bianchi, figurarsi fossimo donne e per di più, donne nere.
Ho provato a chiedermi come possa sentirsi un orientale rispetto ad un occidentale.
Di come si senta un messicano rispetto ad un americano, di come si senta un migrante o un semplice bambino adottato da un occidentale bianco, rispetto ad una società che non fa il minimo sforzo per cercarlo, scoprirlo, conoscerlo per il desiderio di sapere di lui e non per la nauseabonda supponenza che lo designa come superiore che ospita nella sua casa uno che non ha avuto fortuna nella vita, ne nel luogo in cui è nato, ne nella pelle che ha dovuto abitare.
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E mi sento tanto in colpa nel pensare a quanto il mondo bianco abbia sempre trovato il modo di far sembrare il resto del mondo, inferiore, deplorevole, senza la propria dignità e umanità, come se fossero diverse dalle proprie e non l’unica cosa che conta e che li accomuna.
E poi, un po’ inorgoglito, ho pensato che io non sono mai stato così.
Ho sempre affrontato i bulli per difendere l’amica offesa, ho sempre fatto muro con il mio corpo grassoccio al ragazzino con sindrome di dawn, preso di mira dai compagni, o accolto, salutato, abbracciato il compagno autistico, difeso e cercato l’amica con la pelle più scura, coinvolto il compagno polacco in una partita di nomi, cose e città, sorriso e fatto la linguaccia in risposta ad una battuta con una amica o un amico omo.
Non mi sono mai permesso di allontanarmi dal “negretto”, come li chiamano, in fila alla posta, o preso uno a parole, perché vicino a me alla cassa o fuori l’uscita del supermercato, sono anzi quelli che saluto di più e con cui scambio due parole mentre faccio la spesa.
E di certo non sono migliore di nessuno.
Si tratta di sapere proprio questo, non essere superiore a nessuno, migliore di nessuno, ma sapersi parte di un solo ambiente, condividendo una sola vita, tutti assieme, rispettandosi, sempre.
Dicevo che questo è un libro strano, particolare, perché non è un viaggio che facciamo, una missione che seguiamo con il protagonista e sicuramente non ci invita a parteggiare per l’autrice o schifarla a morte.
No. Questo libro è scritto con il sangue ribollito e le lacrime di rabbia di chi ha subìto e di chi continua a subire politiche sbagliate, denigratorie, disprezzo, odio e nonostante non abbia un vero e proprio programma, un manifesto, lo diventa perché indica la sua stessa vita e ci invita a leggere in quello che ha vissuto e sopportato, ciò che non deve più accadere.
Eccolo il manifesto.
E per di più non lo indica nella rabbia, nella vendetta, ma ne crea le basi solide, puntando il dito sui libri che sono più cari all’autrice, usando quelli e la ricchezza che lei ne ha trovato, come le fondamenta su cui costruire la resistenza e la ribellione, per la rinascita.
E tra gli autori che Espérance indica, c’è proprio Igiaba Scego, la scrittrice vincitrice del Premio Napoli che ho conosciuto nel suo libro “La Linea del colore” come giudice lettore. Un libro che invito tutti a leggere, perché in Lafanu Brown trovo tutte le lotte che Espérance vive dentro di se.
E ancora, concludendo proprio come fa lei, vi suggerisco una storia di amicizia e di diversità, come già fatto per la lettura di luglio 2020. Vi suggerisco “Una casa per Jeffrey Magee” (ndr. link affiliato). Un libricino tanto piccolo quanto pieno della lotta tra il mondo nero e quello bianco che fa da sfondo alla potenza di una amicizia tutta particolare, vista al contrario tra un bambino bianco che non riesce a trovare il suo posto se non da una bambina in una famiglia di neri. Perché l’importante è più il cuore che batte lo stesso sangue, che non la differenza del contenitore in cui questo batte.
Poi ognuno dovrà fare i conti con se stesso, con la propria sensibilità, crearne una se non lo ha mai fatto in vita sua e scendere a patti con essa, per rendersi conto di che uomo e donna vogliono in realtà essere.
E poi basta.
Perché ho parlato troppo, in più ho scritto e girato questo prima di partecipare all’incontro della Setta, quindi sono curioso di sapere cosa ne pensano e cosa ne pensate voi! Ditemi la vostra, vi aspetto, mi raccomando!
Vi ringrazio per la visualizzazione e per aver passato del tempo assieme!
Come sempre, il libro è nel link affiliato, così potete recuperarlo!
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