La linea del colore
Premio Napoli
Terzo e ultimo libro in concorso al Premio Napoli 2020! Iniziamo!
Il terzo libro che ho letto è “La linea del colore“, edito Bompiani nel 2020, rilegato in brossura, doppia copertina, bello da tenere tra le mani. La copertina molto emblematica, ma per conoscerla e capirla, dovrete leggere il pensiero della scrittrice a riguardo.
Igiaba Scego è nata a Roma nel 1974, da una famiglia di origini somale. Laureatasi in Letterature straniere e con un dottorato di ricerca in Pedagogia, ha fatto dei suoi interessi e competenze un mix che l’ha portata a diventare scrittrice e giornalista con uno sguardo particolare sul dialogo tra le culture e la migrazione. Le sue opere infatti sono piene di riferimenti autobiografici che segnano così il precario equilibrio tra la sua identità di origine somala e quella quotidiana, italiana.
Collabora con numerose riviste, occupandosi di questi stessi temi. Nel 2010 pubblica “La mia casa è dove sono” edito da Rizzoli che l’anno successivo vince il Premio Mondello. Nel 2020 pubblica con Bompiani il libro che partecipa come finalista nella terna di narrativa del Premio Napoli, quindi “La Linea del Colore“.
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La Linea del Colore è un romanzo che, a detta della scrittrice stessa, è il terzo di una trilogia inconsapevole che tratta storie diverse tra loro ma che nascono e si muovono nello stesso ambito e raccontano la stessa denuncia.
Qui siamo nel 1887, a Roma e sono passati 17 anni dalla Breccia di Porta Pia che ha visto capitolare il Papa e lo Stato Pontificio, sotto il pressante desiderio di unificazione del Regno d’Italia. E qui troviamo il movente e motivo di questo racconto nella persona di Lafanu Brown, una signora nera che si è ritrovata al momento sbagliato nel posto sbagliato, perché mentre in Somalia l’esercito colonizzatore veniva annientato, in Italia si dava la colpa ai neri, per tanta morte ingiusta. Come si dice qui, ‘o munn sott e ‘ncopp. Tratta in salvo da un uomo, Lafanu ha poi iniziato a ripercorrere la sua vita in una lunga lettera, con la quale dare una risposta alla proposta del suo amato Ulisse.
È quindi per questo viaggio nella memoria che parte il racconto, un racconto che si snoda nel tempo, che salta da un presente narrato negli Incroci di una Leila di origini somale, che vive da tempo in Italia e ha da poco superato una brutta malattia e sta per fare un incontro molto particolare con una donna, la vera protagonista di questa storia.
Il salto è molto importante, perché ci ritroviamo attorno alla metà del 1800 in America, quando ribollivano i moti antischiavisti e si premeva per una libertà femminile più ampia e riconosciuta e la società si spaccava in due, con gli abolizionisti che volevano ammettere nella società i neri, sinora trattati come schiavi.
È in questa cornice, nella quale le vedove perbene ed ereditiere si prestavano per mostrare alla società il loro buon cuore, che Betsebea McKenzie si addentra in quel che rimaneva del territorio Chippewa, tra il Minnesota, il Michigan, il Montana e il Nord Dakota, e prende con se, per due soldi, la giovane Lafanu Brown, strappandola ad una società primitiva e che le andava stretta, lei che era per metà Chippewa e per metà Haitiana, con tanti sogni nel cuore e chilometri da voler percorrere sotto i piedi.
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Betsebea McKenzie quindi, nel suo intento di educare la giovane Lafanu e di mostrarla quale suo fiore all’occhiello alla società di Salenius, aveva pensato a tutto, dispensando soldi a destra e manca pur di civilizzarla, pur di mostrarsi al meglio in una società che predicava l’equità e la giustizia, ma rincorreva ancora sogni di gloria personale.
Lafanu viene così ammessa all’Istituto di Coberlin, una scuola per sole donne, ma il sogno dura poco, perché una sera, andando a teatro con le compagne, viene messa alla porta perché nera e quindi viene violentata da un gruppo di uomini bianchi.
Forse più che nel viaggio che l’ha portata lontana dalla sua terra, è da qui in poi che Lafanu Brown inizia il suo percorso.
Lafanu è una ragazza brillante, molto moderna, non solo per il suo popolo Chippewa, ma anche per quello occidentale e civilizzato degli Stati Uniti d’America.
Attira su di se lo sguardo di molti, bianchi e neri, servi e liberi. Trascorre gran parte della sua giovinezza in questa America che non la vuole, che ha sempre guardato alle donne bianche con uno sguardo di inferiorità, figurarsi ad una donna che è anche nera. Eppure Lafanu, nonostante si ritrovi fuori da Coberlin, spaccata in due dalla violenza subita e di cui non ricorda nulla né riconosce ciò che le è accaduto, rincorsa da quelle ombre malvage, riesce a trovare se stessa nei libri e soprattutto nel disegno.
Dopo Coberlin, un’altra donna la istruisce. Una vedova, Lizzie Manson, che non è tanto diversa da Betsebea, se non che è più povera e indebitata, anche lei pronta a tutto pur di mostrarsi nella società come donna caritatevole, protettrice di una nera dai particolari talenti. È così che Lafanu cresce, osservando quei bianchi altolocati, tutti pronti a interessarsi alla causa negra sostenendo persino il loro più grande rappresentante, Frederick Bailey, per poi allontanarsene per farsi dipingere come dei santi samaritani, sfruttando ancora una volta i neri come se fossero strumenti per raggiungere una posizione migliore. Prima lo erano nelle piantagioni di cotone e nei lavori forzati del sud, ora lo sono per far sfoggio di se nei salotti da bene, di quei ricchi del nord.
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Lafanu tutto questo lo sa bene e si rifugia nei libri e nella conoscenza che le viene offerta e che proviene da un’Europa lontana, ancor più nello specifico, da un’Italia e una Roma che inizia a sognare e desiderare di poter raggiungere e che, quando dopo tanti anni e sacrifici, la raggiunge, Lafanu inizia a creare e ad approfondire la sua arte, rimirando le bellezze romane e italiane, sviluppando la sua denuncia della condizione dei popoli neri, attraverso le sue tele e i suoi schizzi.
Il racconto di Leila ai giorni nostri la pone quindi alla ricerca del passato di Lafanu, mentre è Lafanu stessa a riguardare il suo, raccontandolo a Ulisse.
Ma non troviamo in questo romanzo un racconto epistolare, quanto più uno spaziare molto dinamico, fresco, brioso, che segue lo sforzo mnemonico di Lafanu nel ricordare il suo passato, il suo villaggio, il suo desiderio di scoprire chi sia il padre e quanto anche lei possa viaggiare come ha fatto lui.
Nonostante i capitoli siano ritmati tra Lafanu nel suo presente, che ricorda del suo passato, raccontato in terza persona perché appunto non si tratta di un racconto epistolare (nonostante vi siano alcune tracce di Lafanu che scrive di se stessa), e Leila nel suo presente a noi molto più vicino che porta con se tutta la sua esperienza di figlia della Somalia con un passaporto forte che quindi può agilmente viaggiare nel mondo in cerca di indizi, tracce e testimonianze della vita di Lafanu, è il romanzo stesso a darci tanti appigli grazie agli accenni storici, tanto da farci sembrare tutta la storia una narrazione di un reale che però non è mai accaduto, ma che per come è scritto, sembra realmente successo.
È Scego stessa che, sul finire del libro, ci mostra quali sono i fatti e le persone reali che le hanno dato ispirazione per Lafanu e per Leila, ma per fortuna non ci anticipa nulla nel racconto, che è così davvero godurioso.
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Ho trovato interessante l’indagine di un mondo così lontano, come quello schiavista americano della metà dell’800, così in cerca di rinnovo e rilancio, rapportato alla situazione attuale e moderna dell’Europa.
A Lafanu che viene presa dalla sua terra natia, che viene messa sotto le ali protettrici di più istitutrici, si frappone la figura di Binti, sorella di Leila, che rivive in gran parte i patimenti e le ingiustizie di Lafanu, costretta in Somalia e in questa ingiustizia si rinnovano tutte le contraddizioni di una Europa che si è chiusa in se stessa, quando in passato era crocevia e luogo di incontri tra culture e popoli diversi.
Allo sforzo di Lafanu di allontanare quella violenza da se, di denunciare la condizione del popolo nero non solo americano, ma mondiale, attraverso la sua arte, ritroviamo il richiamo a noi contemporaneo della sua stessa arte che riecheggia nei secoli e attira a se altre donne, altri uomini, a perpetrare questa lotta.
Sono i suoi diari, le sue opere e studi, la sua vita intera a essere di ispirazione per altre donne, Leila, Alexandria, Binti eccetera, perché se prima c’erano almeno le ricche vedove a gloriarsi delle loro buone azioni, immettendo in società donne nere, oggi invece ci siamo rinchiusi nel nostro agio e nel nostro diritto fuori dal mondo di poter essere gli unici e soli a godere di privilegi, da mettere gli altri, e in particolar modo i neri, da parte.
Tutti questi rimandi, tutta questo movimento che nella storia diventa una danza che si allunga dal passato al presente e dal presente rimanda al passato con occhi indagatori, è la prima forza di questo romanzo.
La seconda è la costruzione dei personaggi e dei luoghi.
Nessun personaggio, nessun luogo è stato messo su senza cura, senza farcelo sembrare vivo, vero, credibile.
La forza di Igiaba Scego è ancora tutta in questo suo modo così fermo, preciso, reale e gustoso di scrivere e di creare. E lo fa attraverso il rimando a opere scritte e soprattutto alle opere d’arte che in gran parte possiamo ritrovare in Italia e che a me hanno fatto venire una voglia matta di viaggiare per poterle osservare, proprio come, nella sua inventiva, hanno fatto Lafanu e Leila.
A partire sicuramente dalle statue delle donne incatenate a Marino, nel palazzi dell’arte di Firenze e Venezia, ai Quattro Mori di Livorno, al Bassorilievo di Clelia Severini a Roma, così come anche nei meravigliosi dipinti di Artemisia Gentileschi, Caravaggio, gli affreschi di Andrea Pozzo nella Chiesa di S. Ignazio di Loyola a Roma con la sua finta cupola e molti altri che di sicuro mi sfuggono, ma che, aperti sullo schermo del pc, mi hanno aiutato a immergermi ancor più e a dare ancora più senso e forza e a stringere ancor più un patto tra Scego e me nel sospendere l’incredulità, nel rafforzare invece la fiducia in quello che leggevo, a trascinarmi nella vita di Lafanu e nella sua meravigliosa arte che, a fine racconto posso dire di sentirne un’amara mancanza.
Se Lafanu fosse vissuta realmente!
E invece, mancano le sue opere che di sicuro avrebbero reso il mondo diverso, avrebbero aperto lo sguardo e elevato le coscienze.
Invece questo è stato possibile solo tramite questo racconto e allora si!
Facciamo conto che Lafanu sia realmente esistita, che abbia realmente creato e dipinto la sua vita e fatto della sua arte la sua denuncia al mondo, perché uscendo da questo libro non possiamo non ragionare, non confrontarci con il reale che c’è veramente, e cioè con questo Mediterraneo che si sta trasformando nel nuovo Atlantico, tomba dei neri nella tratta degli schiavi d’Africa, nella tomba moderna di chi fugge da condizioni di vita che vita non permettono.
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Non oso immaginare a quante Lafanu e quante Binti siano vissute e a quante non sia stata data una dottoressa Lul per aiutarle e una voce per gridare il loro dolore e la loro speranza.
La Linea del Colore è una linea che divide il mondo, che spezza in due e che fa una graduatoria, una classifica degli esseri umani in chi può e in chi non deve, in chi ha e in chi non deve avere. Una netta separazione in chi è e vive, da chi non ha occasioni, scappa, viene violato, fatto a pezzi e difficilmente ritorna e se ritorna fisicamente, non c’è più mentalmente.
Scego traccia questa linea non nel mondo geograficamente conosciuto, ma nella storia, dal 1800 a oggi, mettendo in luce come non debba essere la profittabilità politica ed economica a rendere forti i passaporti e a dare la possibilità di viaggiare, istruirsi e costruirsi, quanto il desiderio di essere e di affermarsi ovunque, da qualunque parte della linea si parta.
Un racconto davvero stupendo, forte, duro, crudele, affiatato, coinvolgente, che fa presa incredibilmente anche in chi si sente lontano da tutto questo, pur non sapendo di essere parte e di avere il potere di cambiare la situazione.
Lafanu siamo tutti noi, quando decidiamo di prendere coscienza della nostra vita e di volerla migliorare.
Una lettura che consiglio vivamente e devo sicuramente approfondire questa bravissima scrittrice Igiaba Scego, leggendo gli altri suoi romanzi del genere, perché ha tanto da insegnare.
Il libro lo potete trovare nel link affiliato, ma ovviamente aspetto che lo leggiate e che mi facciate sapere la vostra nei commenti qui sotto.
Sicuramente prima di girare questa puntata avrò votato il mio vincitore per questo Premio Napoli 2020, ma aspetto di sapere chi secondo voi merita il primo posto!
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