@Re_Censo #384 Vita, Morte e Miracoli di Bonfiglio Liborio | Premio Napoli

Vita, Morte e Miracoli di Bonfiglio Liborio
Premio Napoli

Secondo libro in concorso al Premio Napoli 2020 ed è un qualcosa di… non dico niente! Iniziamo!

@Re_Censo #384 Vita, Morte e Miracoli di Bonfiglio Liborio | Premio Napoli

Il secondo libro che ho letto è “Vita, Morte e Miracoli di Bonfiglio Liborio“, edito Minimum Fax nel 2019, rilegato in brossura e con un effetto soft touch vellutato, molto interessante. Dalla copertina mi aspettavo qualcosa di politicizzato o in memoria dell’ottobre rosso russo, ma aprendolo, già dalla prima pagina del racconto, è stato una meraviglia!

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Lo scrittrore è Remo Rapino, nato a Casalanguida, in provincia di Chieti, nel 1951, è un insegnante di filosofia e storia e a questa attività accompagna dal 1993 quella di scrittore e poeta. Prima pubblicazione è infatti proprio di quell’anno, “Dissintonie“.
Dopo dieci pubblicazioni e raccolte di poesie, il professore inizia a dedicarsi alla prosa e il suo primo libro è proprio quello in concorso e che ha già vinto il Premio Campiello nel 2020.

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Vita, Morte e Miracoli di Bonfiglio Liborio ha per protagonista un secolo molto importante, soprattutto un momento forte della nostra storia, che è quello della Seconda Guerra Mondiale, dell’occupazione nazista in Italia e delle giornate di liberazione che segnarono la fine della guerra nel nostro paese. Ma a raccontare questo contesto storico è il vero protagonista, Bonfiglio Liborio, che non è il tipico narratore preparato e ferrato nella materia, ma l’ultimo degli ultimi, il figlio di nessuno, un lavoratore con solo il diploma delle elementari, che gira suo malgrado l’Italia, lasciando il suo paese indefinito, andando a finire in guerra e in manicomio prima di ritornare alla casa della sua infanzia.

Cosa ha di strano e di diverso questo protagonista?
La narrazione è tutta sua, in prima persona infatti Liborio ci trascina in un fiume in piena che è quello dei suoi pensieri, dei suoi ricordi, in un risultato editoriale che è incredibile. Pagine e pagine intere, piene zeppe della sua prosa, senza mai andare a capo, senza mai spezzare e creare paragrafi, strano anzi che ci siano dei capitoli, artificio che serve solo a indicare la scansione in gruppi di anni, per meglio farci capire lo scorrere del tempo.

Nei suoi all’incirca 80 anni e con il modo tutto suo di raccontare, Liborio ci trascina senza nulla pretendere, nella sua vita, nella sua memoria che si fa storia, la sua storia, la storia dell’Italia dell’epoca, degli italiani e soprattutto di quelli che sono ai margini della società, i matti.
Liborio stesso, nella sua lucidità, ammette di essere un “cocciamatta”, un matto di testa, anche se non sa come ci è arrivato e per ricordarlo anche a se stesso, intraprende questo viaggio nella memoria, volendo viaggiare indietro per non fermarsi, per non far arrivare quel momento ultimo che accomuna tutti, cocciamatti e normali; la morte.

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E come lo fa?
Liborio, con quel poco di istruzione che ha, si butta a capofitto nel racconto della sua vita, prendendo come mezzo il suo stesso linguaggio, il suo dialetto, la sua conoscenza e cultura. E se questo inizialmente rende un impatto tutto particolare nel lettore, piano piano e con una semplicità disarmante, ci fa disimparare tutte le regole grammaticali e lo stereotipo del libro grammaticalmente impeccabile, per farci assaporare una lingua quasi vernacolare, viscerale, che non è più solo una lingua, una connotazione dell’ignoranza del protagonista, quanto più il sapore e il gusto della sua stessa vita, la sapidità del suo vissuto.
Anche se Rapino ci offre un glossario sul finire del libro, ho tentato di usarlo il meno possibile, per mantenere vivo il sapore e il gusto che Liborio vuole passarci nel suo raccontarsi. E nel fare questo, il risultato è un qualcosa di emozionante, incantevole, trascinante, tanto che ritrovo quasi una musicalità nel suo modo di scrivere, quasi un ritmo e una cadenza poetica.

Un po’ come fanno tutti quelli che si sentono in difficoltà, insicuri, Liborio ripete spesso e volentieri, a raffica, alcuni concetti, che quasi diventano dei mantra, senza la necessità di andarsi a proporre sotto aspetti differenti, ma semplicemente ripetendoli, come a voler assodare i concetti in lui più che in noi stessi. È così che veniamo a sapere della sua gioventù, del fatto che la madre era morta giovane, che non ha mai conosciuto il padre, nonostante lei gli ripetesse che aveva i suoi stessi occhi, occhi che lui non ha mai visto ma che puntualmente si domanda dove poterli incrociare.

Liborio ricorda la

E come lo fa? Liborio, con quel poco di istruzione che ha, si butta a capofitto nel racconto della sua vita, prendendo come mezzo il suo stesso linguaggio, il suo dialetto, la sua conoscenza e cultura. E se questo inizialmente rende un impatto tutto particolare nel lettore, piano piano e con una semplicità disarmante, ci fa disimparare tutte le regole grammaticali e lo stereotipo del libro grammaticalmente impeccabile, per farci assaporare una lingua quasi vernacolare, viscerale, che non è più solo una lingua, una connotazione dell’ignoranza del protagonista, quanto più il sapore e il gusto della sua stessa vita, la sapidità del suo vissuto. Anche se Rapino ci offre un glossario sul finire del libro, ho tentato di usarlo il meno possibile, per mantenere vivo il sapore e il gusto che Liborio vuole passarci nel suo raccontarsi. E nel fare questo, il risultato è un qualcosa di emozionante, incantevole, trascinante, tanto che ritrovo quasi una musicalità nel suo modo di scrivere, quasi un ritmo e una cadenza poetica.
Un po’ come fanno tutti quelli che si sentono in difficoltà, insicuri, Liborio ripete spesso e volentieri, a raffica, alcuni concetti, che quasi diventano dei mantra, senza la necessità di andarsi a proporre sotto aspetti differenti, ma semplicemente ripetendoli, come a voler assodare i concetti in lui più che in noi stessi. È così che veniamo a sapere della sua gioventù, del fatto che la madre era morta giovane, che non ha mai conosciuto il padre, nonostante lei gli ripetesse che aveva i suoi stessi occhi, occhi che lui non ha mai visto ma che puntualmente si domanda dove poterli incrociare.

Liborio ricorda la guerra, l’arrivo degli Mericani, le fucilate e le scorribande dei tedeschi, le giornate della liberazione, i suoi primi lavori e la sua chiamata alle armi, nonostante la guerra fosse finita. Ancor prima che i segni neri iniziassero a essere quasi onnipresenti nella sua vita, cioè tutte quelle disgrazie che lo rendevano ancora più succube della realtà in cui era immerso, Liborio ci racconta della sua cotta per Giordani Teresa, apparentemente non corrisposta, del suo matrimonio con quello stoffaro Maccarone e del fatto che, segno nero dopo segno nero, lui non vedesse più alcun posto per se nel suo paese. Come un po’ tutti quelli del centrosud, Liborio diventa un immigrato, spostandosi al nord dove inizia a lavorare per alcune fabbriche, prendendo parte attiva nella vita politica e sindacale del mondo del lavoro, sempre però consapevole dei suoi limiti e delle sue lacune.

Liborio ricorda la guerra, l’arrivo degli Mericani, le fucilate e le scorribande dei tedeschi, le giornate della liberazione, i suoi primi lavori e la sua chiamata alle armi, nonostante la guerra fosse finita.

Ancor prima che i segni neri iniziassero a essere quasi onnipresenti nella sua vita, cioè tutte quelle disgrazie che lo rendevano ancora più succube della realtà in cui era immerso, Liborio ci racconta della sua cotta per Giordani Teresa, apparentemente non corrisposta, del suo matrimonio con quello stoffaro Maccarone e del fatto che, segno nero dopo segno nero, lui non vedesse più alcun posto per se nel suo paese.

Come un po’ tutti quelli del centrosud, Liborio diventa un immigrato, spostandosi al nord dove inizia a lavorare per alcune fabbriche, prendendo parte attiva nella vita politica e sindacale del mondo del lavoro, sempre però consapevole dei suoi limiti e delle sue lacune.

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Un susseguirsi di eventi che ci vengono raccontati e presentati proprio come un mare in alta marea, con righe e righe di testo che scorrono e rapiscono il nostro sguardo, fino ad incontrare alcuni passi un po’ più lenti e pesanti, ma che comunque attirano, incuriosiscono, trascinano il lettore che, con Liborio stesso, vive nella fabbrica della Ducati, rivive i suoni e i rumori che si ripetono nel quotidiano nella testa del protagonista.

Il picco massimo dell’ingenuità di Liborio lo incontriamo nel manicomio, dove lui, con altri cocciamatta peggio messi di lui, è rinchiuso per un lungo periodo.
Qui non solo non riconosce la sua condizione, ma si fa delle domande, esplora ancora meglio se stesso, ponendosi però non come singolo, ma sempre in relazione. Relazione col medico Mattolini Alvise, che con un’altra Teresa, Balugani Teresa, con la quale sembra nascere dinuovo una relazione speciale, ma che un altro segno nero fa finire in tragedia.

È da qui che, col ritorno a casa, dopo tanti anni sotto una bolla, una campana protettiva, Liborio torna in una società che non gli appartiene più, con la quale non ha più nulla da spartire, in una città che non sembra neanche più quella che ha lasciato dopo la guerra. Lì, in questo spaesamento, come in un unico punto che non ha subìto il passare del tempo, Liborio ritrova la sua casa e prende il posto che evidentemente gli spetta, cioè quello di cocciamatta del suo paese, deriso da tutti, ormai anziano, senza affetti, senza contatti, senza una storia cui qualcuno riesce a credere.
Sempre più tenero, sempre più dolce, questo ormai vecchietto che tutti noi possiamo di certo incontrare tra le strade del nostro quartiere o della nostra città (a me è capitata un’intera famiglia di fratelli e sorelle insegnanti, divenuti tutti schizofrenici), diventa quella figura anonima sullo sfondo del quartiere, tra le vie più anguste per non farsi vedere, per non attirare l’attenzione.

Perché è qui la drammaticità di Liborio, la sua consapevolezza di essere diverso dagli altri, quel barlume di intelligenza che il suo amato insegnante Cianfarra Romeo ha coltivato in lui da bambino, diventa l’unico barlume vivo che lo aiuta a ragionare e ad aspettare ancora quell’incontro sempre più inverosimile col padre, solo per vedere se realmente hanno gli occhi uguali.

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Qui, in questo scena, il racconto cambia.
Liborio non racconta più la sua vita, ma un suo sogno, un suo desiderio o un suo delirio, poco prima che la sua vita finisca.
Liborio ci presenta l’onirica festa di compleanno, del suo ultimo compleanno, cui tutti i suoi amici, amori, familiari, compagni di lavoro, ritornano a lui come se il tempo non fosse mai trascorso e persino l’incontro tanto atteso lo prende in contropiede, mostrandoci un Liborio fermo nella sua tenera ingenuità, fermo nei suoi rimpianti e desideri.
Un capitolo dalla forte carica emotiva, che tramite l’elemento onirico sonda in maniera completa, quasi magistrale, gli ultimi attimi di un cocciamatta che, nel suo piccolo, ha vissuto la sua vita come meglio ha potuto, vittima dei suoi stessi limiti, della società, della successione di sventure dei segni neri che lo hanno perseguitato fino all’ultimo. Ma ha mantenuto la lucidità sino alla fine, tanto da scrivere egli stesso la sua lapide, commovente, struggente, per me di alto valore, perché nessuno dovrebbe vivere come Liborio, isolato, messo ai margini della società, come se non avesse significato.

A Remo Rapino non posso far altro che dire il mio grazie immenso, per averci consegnato una storia vissuta, vista e raccontata da uno degli ultimi, uno degli invisibili, ma che ha, per mezzo delle ricerche, della fantasia e del linguaggio scelto dallo scrittore, saputo passarci tutta la struggente bellezza di un uomo che non è mai vissuto, Liborio, ma che possiamo incontrare sicuramente nello sguardo di tanti che vivono nella società e che in tanti mettono da parte, come vite inutili e non di valore. Rapino ci mostra l’esatto opposto, con una poetica drammatica, ma al tempo stesso esaltante e meravigliosa, che prende ai visceri e stritola il cuore.

E la copertina assume così tutto un altro sapore, un altro significato, di un uomo solo, che ha vissuto come meglio ha saputo e potuto, e che è morto apparentemente solo, ma circondato nella sua mente onirica, da miriadi di persone che hanno saputo semplicemente stargli accanto.

Consiglio assolutamente di leggere questo libro, penso uno dei più belli e commoventi che io abbia letto e di poter incontrare Remo Rapino per fargli i miei complimenti, dargli il mio grazie più sincero e stringergli la mano per il meraviglioso regalo che ci ha fatto con questa storia.

Il libro lo potete trovare nel link affiliato, ma ovviamente aspetto che lo leggiate e che mi facciate sapere la vostra nei commenti qui sotto. Manca ormai un solo libro per la sezione narrativa di questo Premio Napoli 2020, quindi vi aspetto!
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Pubblicato da Re_Censo

Re_Censo è un nome inventato, gestito, prodotto e presentato da "OIRAD Studio d'Arte Grafica di Piedimonte Dario". Format di videorecensioni di libri, fumetti, manga, anime, film e telefilm.

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