@Re_Censo #337 Possiamo salvare il mondo prima di cena | #LASETTADEILIBRI

Possiamo salvare il mondo prima di cena
#LASETTADEILIBRI

Oggi torniamo a vestire i panni della Setta dei Libri per la lettura di maggio 2020. Iniziamo!

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Il libro di cui parliamo oggi è “Possiamo salvare il mondo prima di cena, perché il clima siamo noi“, settimo libro de La Setta dei Libri, è scritto da Jonathan Safran Foer, per Guanda, 2019.
Costo di 18€, che ho acquistato presso una cartolibreria del mio quartiere, durante l’emergenza Covid-19.

@Re_Censo #337 Possiamo salvare il mondo prima di cena | #LASETTADEILIBRI Jonathan Safran Foer

Jonathan Safran Foer, è nato nel 1977 a Washington D.C. ed è nipote di una sopravvissuta all’Olocausto. Già dai giorni alla Princeton University, Foer è vincitore di premi per la scrittura creativa e prima di iniziare la carriera di scrittore, ha frequentato la Mount Sinai School of Medicine.
Il suo romanzo di esordio “Ogni cosa è illuminata”, è nato quasi per caso, durante un viaggio in Ucraina, dove si era trasferito in cerca di tracce storiche sul nonno, da cui è tratta la trasposizione cinematografica nel 2005.
Proprio nel 2005 esce il suo secondo romanzo, “Molto forte, incredibilmente vicino”, anche questo trasposto sul grande schermo.
Se niente importa”, del 2009, Foer si concentra sugli allevamenti intensivi ai quali aggiudica, assieme ad una corposa ricerca, la gran parte di responsabilità sull’inquinamento ambientale. Nel 2016, il quarto romanzo, “Eccomi” e seppur si sia sposato, dopo due figli, nel 2014 divorzia.

Del 2019 è il romanzo di questo mese, a metà tra un saggio scientifico-ecologico e un reportage di denuncia ecologica, nato da un viaggio nella memoria dell’autore, tramite la memoria tramandatagli direttamente e indirettamente dalla famiglia, sull’Olocausto, dall’esperienza della nonna materna.

E partirei proprio da questo punto, perché è lo stesso col quale parte l’autore stesso, tenendo però a mente che Foer scrive in modo molto leggero, trascinante, semplice, ma con una serie di espedienti che lo incasellano in un codice linguistico molto vicino allo stile di vita americano e quindi richiama molte delle abitudini degli States, che magari qui da noi sono di sicuro meno sentite e condivise.

Facendo memoria della nonna, Foer rivive un po’ quel grande tabù che sembra esserci in casa, riguardo il fatto che la nonna sia una sopravvissuta e cosa ha dovuto vivere in quel periodo. Nel ricordarla, guarda ai figli e alla relazione che ha con loro e a cosa ci si aspetta da lui, perché il loro futuro sia migliore del presente in cui vive lui.

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Il viaggio all’interno di questo romanzo prende, come ho detto, tinte diverse, passando da un semplice diario, un memoriale della sua stessa famiglia, mostrandoci i suoi pensieri e turbamenti, piccoli spicchi del suo passato e delle relazioni personali, andando a grattare con una certa insistenza sulle caratteristiche bibliche del proprio passato giudaico, che a differenza della sua stessa famiglia vive con meno interesse, seppur ne sia, nei fatti, grandemente legato. Non mancano gli accenni al memoriale del popolo ebraico, soprattutto se letti in alla luce del grande e terribile evento dell’Olocausto.

Da diario familiare, il percorso narrativo muta nei primi capitoli, mostrando come alcune scelte dell’uomo in generale, caratterizzino l’essere umano, attraverso il proprio schema mentale, nel citare un evento in particolare: nel racconto dei fatti atroci in Europa al Giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Jan Karski, un soldato scappato dalla Polonia e arrivato in America, il Giudice Frankfurter, non riesce a credergli, nonostante riconosca in Karski la sincerità delle sue parole.
O anche di come, per poter scoppiare come caso mediatico e di interesse pubblico, il problema razziale dei neri che, a metà degli anni ’50, non potevano sedersi sui bus, venga presa la storia di Rosa Parks invece del primissimo caso di “disobbedienza civile” portato avanti da Claudette Colvin, ben poco pulita come immagine, a causa del suo passato, e quindi meno convincente a livello mediatico.

Mettendo da parte gli aneddoti personali e i fatti storici, come strumento attivo della memoria in concerto per smuovere la coscienza del lettore, Foer spinge sul nostro secondo step con una serie di dati scientifici, scaturiti dalla ricerca. Attraverso di questi, elencati in maniera fredda, meccanica e senza troppe spiegazioni che li esemplifichino, lo scrittore elenca i danni che sono stati arrecati all’ecosistema e all’ambiente di come ricerche, di natura e interessi diversi, si combattano tra loro per imputare a questo o a quell’altro elemento tutta o gran parte delle responsabilità.

Ne vien fuori che il pensiero di Foer è alquanto chiaro e cristallino e viene ripetuto nuovamente, più avanti, con aneddoti e retoriche varie: bisogna mangiare meno carne e derivati animali. Una soluzione cui tutti si aspettavano di arrivare, era chiara e lampante, dietro già i primi capitoli. Eppure, nonostante prema molto sull’argomento e questo libro voglia essere un richiamo a se stesso e alla condizione del pianeta nell’oggi che doveva essere un ieri per provare realmente a far qualcosa per cambiare il domani, Foer non da alcuno strumento in più, non indica una sola strada, ma tante e nel farlo è come se non ne indicasse alcuna.
Viaggiare meno in aereo, usare meno mezzi di trasporto inquinanti, usare meno corrente elettrica (di dubbia provenienza ecofriendly), mangiare meno carne procapite, riducendo così il numero e l’ampiezza degli allevamenti intensivi, da lui e dalle ricerche fatte, indicati come prima e fondamentale risorsa di inquinamento globale, tra emissioni di gas animali e spreco di energie e fondi ecologici, preferendo alimentazioni più vegetali…

Insomma, l’idea di fondo non la trovo sbagliata, in famiglia noi già consumiamo pochissima carne rossa e ben pochi derivati, variando spesso tra le fonti di proteine. Ma già il fatto che questa lettura mi abbia spinto ad una riflessione del genere, significa che, per me, il libro qualche domanda me l’ha fatta fare. Magari, come Foer stesso, non riuscirò a diventare vegetariano o vegano, anche perché considero l’uomo come specie onnivora. Il male io lo vedo nelle estremizzazioni e la riduzione di fonti animali, a favore di quelle vegetali, la trovo una soluzione condivisibile, seppur decisamente più costosa ed elitaria, classista. Ma, ricordiamoci, parliamo di uno scrittore che scrive particolarmente indirizzato ai suoi conterranei d’oltreoceano.

La narrazione si incupisce quando, nel ricordare come un diario la malattia e la vecchiaia e conseguente morte della nonna, Foer spinge ancor più l’acceleratore per arrivare alla fine in maniera un po’ sconclusionata.
Se finora mi ha riempito di aneddoti e ricostruzioni storiche e scientifiche, mostrandomi e dimostrandomi come l’alimentazione e le fonti di cibo siano già una delle soluzioni da adottare, mi mostra anche che non bisogna far figli, nonostante lui ne abbia ben due. A questo però suppongo ci sia arrivato a causa del divorzio e nel libro, suppongo, ci sia un po’ del livore. Ma da padre, il suo interesse è tutto sui figli e il loro futuro.
E questo interesse è trasposto nel capitolo che dedica ad una riflessione con se stesso, chiamato IV Disputa con l’Anima, che è molto pesante, pedante, ma molto introspettivo e si legge così la lotta che l’autore fa con se stesso, perché come detto da altri, conoscere e credere sono due cose diverse: il conoscere non presuppone un cambiamento, ma il crederci invece si. Quante volte ho pensato di mettermi dinuovo a dieta e poi non ci ho creduto realmente e ho solo perso tempo? Uff…!!!

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Nel modo di raccontare qualcosa, che è tutto di stampo giudaico, che quindi parte dal proprio passato e dalle proprie relazioni (Dio e uomo, nonna e Jonathan), Foer cerca di far comprendere la gravità del problema, senza però riuscire a scegliere un solo amo col quale acchiappare il lettore, lanciandone così tantissimi, trascinando la questione ecologica e della sopravvivenza dell’uomo sul pianeta e del pianeta stesso, tramite il viaggio nella memoria, in vista di una paura futura, frammentando escatologici e catartici discorsi con se stesso a dati analitici oggettivi, per spostare dalla mera conoscenza alla coscienza la gravità dei fatti, giungendo quasi a dover mettere in difficoltà l’americano o comunque il lettore in generale, facendogli pesare il suo modo scorretto e sconveniente di vivere, come se minacciare o usare scene tetre e drammatiche possa smuoverci meglio e metterci più pepe al fondoschiena.

Trovo che quindi sia un tema interessantissimo, nella mia vita universitaria ho letto qualche saggio, quindi avvicinarmi a questo romanzo che ha un’impronta saggistica è stato facile, perché poi è un tema di cui tutti si riempiono la bocca e in verità poi nessuno ne parla realmente, con l’intenzione di fare qualcosa di concreto. A farlo sono infatti pochi, troppo pochi e con quella saccenza di chi pensa che facendo qualcosa di bene possa essere autorizzato a porsi male verso chi non cambia.

Eppure trovo che il libro, anche per un Europeo o un Italiano come me, faccia porre molti accenti su molti problemi e comportamenti individuali che diventano poi di massa e che sono sbagliati, sia sulla salute immediata di ognuno, che su quella di tutti nel medio e lungo periodo. Lasciare il libro, con quella sana irrequietezza, è importante, ma a questa è giusto e doveroso fare le giuste ricerche (e qui ci sono tantissime fonti nella bibliografia, cui attinge però solo per il lato statistico e non nel racconto vero e proprio), per poter compiere il cambiamento. Perché il cambiamento non avviene da solo.

Ma, come detto da tanti Adepti, è anche vero che è il modo col quale il racconto è fatto ad essere dispersivo e poco incisivo, probabilmente, aggiungo io, proprio perché non viviamo la situazione, le abitudini, l’alimentazione così occidentalizzata degli americani… ma quello che mi chiedo io è stato: già il semplice sushi che ogni tanto ci concediamo, che rischi comporta?
Gli allevamenti intensivi di pesce, l’elettricità degli abbattitori, l’inquinamento dei mezzi che trasportano la materia prima, la costante scelta dell’abboffataall you can eat”, quanto incide tutto questo anche da parte nostra?
Stesso dicasi per gli habitué dei pub con quei paninazzi assurdi, stracolmi di carni, imbottite e farcite di carni e grassi e derivati animali? Oppure preferiamo quella marca di abiti, che bella eh, per carità, ma usa additivi, coloranti che sversano poi nei fiumi?
Guardate in Campania cosa hanno combinato dopo due mesi di chiusura forzata al fiume Sarno e chissà chi e per fare cosa!

Come e perché il singolo debba, con la sua morigeratezza, equilibrare l’esagerazione sproporzionata di altri 100?
Il rapporto tra comportamento sano e non sano è troppo sbilanciato verso quest’ultimo… quindi c’è ancora troppa poca conoscenza e di sicuro non si crede ancora realmente e fermamente che si deve cambiare e lo si deve fare nel minor tempo possibile, perché probabilmente siamo già sull’orlo del baratro e abbiamo già una delle gambe tese verso il buio, ma non ce ne siamo accorti.

Insomma, io ho trovato tutto questo incredibilmente esaltante, spaventoso in modo sano, tanto da pormi delle domande e guardare il mondo con più presenza e cognizione. Spero di potermi approcciare a quel che faccio e come lo faccio in maniera altrettanto più consapevole, continuando a pormi domande, le giuste domande, e cercare di darmi le giuste risposte e fare le giuste scelte. Magari inizialmente su cinque domande fallirò il tiro 4 volte.
Ma piano piano, voglio fare di meglio.
E io non ho figli, non ancora. Quindi se voglio che vivano bene, dovevo iniziare l’altro ieri. Ma a cambiare non è mai troppo tardi.

O quasi?

Voi avete letto questo libro? Se si, ditemi la vostra e cosa avete iniziato a cambiare, se il libro vi è piaciuto e cosa non vi è piaciuto, mentre se non lo avete letto, ma siete comunque consapevoli e avete fatto già scelte più forti, ditemi le vostre, facciamo in modo che ognuno di voi, condividendo il proprio cambiamento, sia di ispirazione al prossimo!

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Pubblicato da Re_Censo

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