La Fantascienza a Curvatura
tra Netflix e Amazon Prime Video
Questa volta facciamo un viaggio a velocità di curvatura nel mondo della fantascienza tra due piattaforme streaming. Iniziamo!
Ciò che vorrei fare oggi è concentrarmi su un unico genere, un unico franchise, sviluppato nei suoi due prodotti più recenti e soprattutto, sperare che YouTube non mi segnali il video, perché l’ultima volta che ho parlato di questo innominabile, senza mettere musiche o foto sul video, la Paramount ha deciso che ho violato i copyright.
Quindi nominerò il meno possibile, ma penso ci siamo intesi.
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Detto ciò, oggi quindi parliamo del prodotto Netflix “Discovery” e del prodotto Amazon Prime “Picard“.
Entrambi fanno parte dello stesso franchise, come ho detto, nato dalla mente geniale di Gene Roddenberry, ma sono quanto di più lontano sinora concepito, sia dal lato dei telefilm che li hanno preceduti, che dai film, fermi a quello del 2016; in realtà ne era previsto uno proprio nel 2020, ma suppongo che non se ne faccia nulla in questo momento.
Star Trek Discovery è una serie tv targata Netflix, già alla sua seconda stagione.
Protagonista è Michael Burnham, ufficiale posto in arresto per tradimento, che ritorna tra i ranghi della flotta, nonostante molti si oppongano, per fronteggiare il pericolo dell’Impero Klingon.
Contrariamente a quanto strutturato dal padre di questo universo, gli umani non sono più visti nel modo idilliaco e positivo, ma pieni di conflitti e di oscurità interne che così, almeno su carta, avrebbero dovuto creare quella profondità di caratterizzazione all’interno della storia.
Nel corollario vasto e variegato di personaggi alieni che forma l’equipaggio, spiccano alcuni tra loro, le cui caratteristiche sono decisamente risultate più stereotipate del solito.
Il capitano è Lorca, Jason Isaacs, uomo di ferro, rigido, dal passato oscuro, con problemi di vista, la cui disciplina è seguita e rispettata da tutti.
Abbiamo poi l’alieno per eccellenza, la novità della serie, Saru, Doug Jones, che è forse il più approfondito.
Decisamente stucchevoli invece i due personaggi che rappresentano l’apertura della serie, cosa già vista nei film di Abrams, e quindi l’omosessualità come giusta normalità, Stamets e Culber, rispettivamente l’ingegnere e il medico. Stucchevoli non perché rappresentano la fetta LGBT, ma per il modo così borderline e esagerato con cui si comportano.
E di certo, purtroppo, non sono gli unici ad avere atteggiamenti così forti, estremizzati. Vuoi per la differenza di visione del genere umano, da positivo a subissato dai propri terrori interni, vuoi per la mancanza di una vera e propria trama che non riesce ad approfondire ne la vicenda, ne i personaggi, questo telefilm risulta essere quasi più un teen drama che un fantascientifico.
Se quindi nella prima stagione scopriamo come i Klingon siano così diversi e particolari, quasi più animaleschi e troll, lontani dal modo classico con cui sono rappresentati, senza capelli, molto deformi, pallidi, con armature che li impacciano più di come potevano essere impacciati con una bat’leth tra le mani, portando avanti la loro battaglia nei confronti e della Federazione e delle proprie frange ritenute eretiche, sottolineando una religiosità forse troppo forzata rispetto che in passato, nella seconda stagione il personaggio di Burnham è ancor più il fulcro della storia, andando a esplorare il suo passato che, guarda caso, è collegato alle vicende con cui attualmente la federazione è impegnata, per scongiurare un collasso galattico.
Ma tu guarda un po’ che coincidenza.
Star Trek Picard è una serie tv targata Amazon Prime, cui settimanalmente ci è stata presentata fino a un mesetto fa, ogni venerdì.
Oltre a mantenere una somministrazione a puntate nel modo classico col quale un telefilm è nato, questa serie mantiene un gran numero di personaggi e interpreti originali, estrapolandoli dalle loro case di origine, “The Next Generation” e “Voyager“.
Protagonista per eccellenza è il capitano Picard o meglio dire, l’ammiraglio in pensione Picard. Il suo passato è fuligginoso; siamo a vent’anni dopo Nemesi, nel 2399, si è ritirato a vita privata, sembra un personaggio in pieno decadentismo esistenziale, rintanato nella sua villetta di campagna con due servitori amici romulani.
A differenza di Discovery, che sembra funzionare con l’espediente degli universi paralleli, Picard cammina sulla linea temporale originale e prende a pretesto l’escamotage narrativo del film del 2009: Romulus è in pericolo, il suo sole sta per diventare una Supernova e Picard si fa carico, a nome della Federazione, di salvare i romulani. Purtroppo nello stesso frangente, su Utopia Planitia, insediamento su Marte, i Synth, sintetici, sviluppati a partire dalla tecnologia positronica di Data, attaccano e sterminano chiunque nell’insediamento. È così che nuovamente i progetti e i lavori di Noonien Soong vengono messi al bando.
Ciò che è interessante è il modo col quale la storia viene gestita.
Seppur mantenga ancora una reazione, nelle azioni e scelte dei personaggi, molto borderline e lunatica, ma non dimentichiamoci (per dire) la sola prima puntata di Next Generation, è che qui si è voluto dare un certo spessore e una maturità alla serie, rispecchiando la maturità del personaggio protagonista. Come è stato fatto con il film LOGAN, la serie “Picard” è scevra di molti degli elementi che contraddistinguono questo franchise: meno navi spaziali, meno Federazione, meno alieni. Molto più incentrata sulla nostalgia del protagonista e sulla sua nuova missione, fa un po’ di gioco con i fan di vecchia data, rispolverando la relazione di quest’ultimo con personaggi classici: Data, Sette di Nove, alcuni romulani, persino Riker e Troi sono i meno violati.
Non tutti rientrano nel cast con i loro attori originali, mentre le nuove leve, ormai già addentro al genere, come Santiago Cabrera, buon caratterista già visto in quella grande schifezza di Salvation, sono ancora più particolari, risultando quasi artificiose e dalle reazioni ancora più finte e studiate. Un susseguirsi di momenti forzatamente drammatici, in cui tutti si innamorano al primo sguardo.
Davvero insostenibile.
Cosa accomuna quindi le due serie e cosa invece no?
In entrambe si mantiene lo stile degli effetti speciali.
Inutile girarci attorno, fotografia ed effetti speciali sono entrambi interessanti. Forse la fotografia meglio riuscita la becchiamo proprio nel prodotto di Amazon.
Mentre quello che non funziona è il modo in cui entrambi i prodotti si approcciano e cercano di dare la loro visione e il loro apporto al franchise.
Discovey si ritrova a essere un artificioso guazzabuglio di idee che si discostano dalla natura stessa dei personaggi e di come l’umanità è studiata dal fondatore Roddenberry. E questa visione meno felice dell’umanità è troppo discordante, stona incredibilmente. I dialoghi sono assurdamente autocelebrativi, strapieni di spiegoni e falsamente emotivi. Cercano quel gancio con lo spettatore, altrimenti incantato solo dagli espedienti visivi.
In Picard invece, spogliato di divise, di navi spaziali federali e dal costrutto cui siamo abituati quando si parla della vecchia leva, assume quell’aspetto maturo il cui unico gancio con lo spettatore è segnato dalla presenza di volti noti e familiari. Ma anche in questo caso, mentre il vecchio cast si contraddistingue e mantiene la naturalezza dei dialoghi, anche se borderline nelle reazioni, la fetta del nuovo cast è stucchevole quasi quanto la controparte su Netflix, sviluppando quella inconsistenza del parlato, specchio di un poco approfondito sviluppo dei personaggi, per cui appare logico e normale vederli reagire nei modi più strani, insensati, repentini, saltando da una decisione all’altra, in modo molto lunatico.
Cosa le unisce è quindi l’assenza di una vera trama, di un vero sviluppo e di una crescita reale dei personaggi, che sembrano degli eterni immaturi, delle tavole piatte su cui non si riesce a incidere granché e persino gli eventi principali quasi li scalfiscono.
Si salva forse Picard, emotivamente legato a Data, e Sette di Nove legata al destino degli Ex-Bi e magistralmente resa attraverso il legame con la Regina Borg. Peccato sia durato un niente.
Insomma, per concludere il mio monologo e lasciare spazio a voi, Discovery ha perso gran parte della sua attrattiva. Troppi espedienti che facilitano la missione dell’equipaggio, senza mai creare un vero e proprio ostacolo e per compensare, spiegoni a non finire; Picard è invece una prima stagione che serve a fare un reboot del personaggio, che nell’ultima puntata viene ristabilito e in un certo senso riavviato, anche se, un purista potrebbe dire che quello non è più Picard e che era semplicemente prevedibile che sarebbe finito così.
Resta la curiosità e al tempo stesso una grande, grandissima amarezza per come un franchise che ha partorito bellezze come “Enterprise“, la serie più moderna che indaga i primi viaggi a curvatura, prima ancora di Kirk, possa esser stato trattato in questo modo.
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