Se questo è un uomo
di Primo Levi
GIORNO DELLA MEMORIA
Parliamo di memoria, parliamo di dolore e di futuro. Iniziamo!
Nella puntata di oggi spero di non mostrare la mia grande ignoranza e le mie lacune, a causa del mio percorso di studi, ne voglio far venir fuori una puntata pesante, qualunquista, ma anzi, proprio come l’autore, vorrei portare all’attenzione di voi che mi fate compagnia, i fatti per quel che sono, una specie di maieutica, perché siate voi stessi a trarne le giuste conclusioni. Ovviamente vi aspetto nei commenti e farò particolare attenzione a ciò che verrà scritto, visto l’argomento trattato.
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Parliamo di Primo Levi e dell’esperienza nei campi di concentramento, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Primo Levi, nato il 31 luglio 1919, è stato un chimico, un partigiano e poi scrittore italiano, il primo che, dopo l’esperienza da deportato, ha raccontato e scritto della sua condizione di ebreo deportato e schiavo. Diplomatosi nel 1937, si iscrisse al corso di Chimica all’Università di Torino e quando entrarono in vigore le leggi razziali nel 1938, fece parte di quei pochi ebrei cui fu concesso di continuare gli studi.
Si laureò nel 1941 con lode, ma il suo documento di laurea riportò la sua appartenenza, a sottolineare la disparità che le leggi di Mussolini instillarono nel paese. Le leggi razziali, durante il regime fascista, altro non erano che l’estensione del pensiero discriminatorio e malato sviluppatosi in Germania durante il III Reich da Hitler.
Nel 1942 trovò lavoro in Svizzera e fu lì che entrò in contatto con la resistenza antifascista, entrando a far parte del Partito d’Azione, clandestinamente. Con altri partigiani riparò in Val d’Aosta per trovare rifugio, ma furono arrestati e condotti dalla milizia fascista al campo di Fossoli.
Il 22 febbraio, Primo Levi e altri 650 ebrei, uomini, donne, bambini e anziani, furono caricati su un treno merci e bestiame e iniziarono il primo viaggio infernale per la Polonia, al campo di Auschwitz. Levi fu quindi condotto al campo satellite di Buna-Monowitz dove visse la sua prigionia, la sua costante disumanizzazione, in schiavitù, in attesa di passare per il camino, come imparò lui stesso che era destino di tutti lì.
Se questo è un uomo, è il racconto delle sue memorie, che Primo Levi inizia a scrivere già durante la sua prigionia al campo, quando, dopo gli esami per un Kommando da Chimico, passò a operaio schiavo specializzato ed ebbe, per la prima volta dopo mesi, tra le mani un taccuino e una matita.
Se questo è un uomo non ha una struttura cronologica e una consequenzialità narrativa degli eventi che si sono succeduti, quanto più è scritto come una raccolta di osservazioni che l’autore raccoglie e organizza per temi e aspetti che per lui sono importanti da passare a chi era al di fuori del Lager.
Non vi nascondo che ho una seria difficoltà e una forte emozione nel provare a raccontare questo libro, perché anche se forte era la voglia di leggerlo, ancor più forte era la paura di scoprire in che condizioni avessero vissuto tanti innocenti condannati per il solo fatto di essere nati.
Ciò che quindi Primo Levi opera, è un racconto quasi analitico, della condizione degli schiavi, a partire dall’arrivo e dalla prima selezione fatta una volta scesi dal treno, tra gli abili e inabili al lavoro, le prime visite mediche, per così dire, la brutale spogliazione dei propri averi e con essa della propria dignità, cosa che avveniva giorno dopo giorno fino alla morte, e della marchiatura e di come, proprio dal numero, ogni prigioniero schiavo era praticamente riconoscibile e diventava quel numero, perdendo il proprio nome, il proprio io, il proprio passato, il proprio se.
Come dicevo, questo libro mostra, di “capitolo” in capitolo, un angolo del Lager, di come era la vita-non-vita all’interno del campo, quindi dall’arrivo al Lager, al processo di disumanizzazione, allontanando i figli dai genitori, i mariti dalle mogli, gli anziani e i bambini portati subito al Camino.
Mi sono quasi stupito di come alcuni feriti, invece di essere ammazzati, venissero chiusi nel Ka-Be, l’infermeria, curati, per così dire, per poter continuare ad essere sfruttati. Levi ci propone così come la notte veniva vissuta, tra i sogni masticatori, in due o più nello stesso letto, o il pianto per i ricordi di alcuni, o ancora come fossero costretti a diverse puntate al secchio a causa dell’alimentazione che erano costretti a seguire e alle epidemie che si succedevano tra le baracche.
I tedeschi fascisti avevano pensato proprio a tutto.
Il ritmo del lavoro, l’alzata mattutina, i trasferimenti alla fabbrica di gomma, le punizioni fisiche e violente che infliggevano a chi non teneva il passo o perdesse la scodella e il cucchiaio, a chi non teneva cura della propria veste e delle scarpe, cosa di per se impossibile vista l’assenza di una vera e propria igiene, ma anzi il continuo costringerli ad una finta doccia, ad una rasatura costretta e violenta, faceva parte di un sistema disumanizzante che portava l’Häftling ad una costante chiusura in se stesso, allontanamento dalla realtà, una spogliazione della propria umanità e dignità; assieme all’alimentazione scarsa e insulsa, al trattamento da parte dei Kapos, le selezioni e le condizioni metereologiche sempre più spietate, sia estive o invernali, tali da rendere incapaci e impossibile una vera e propria rivolta, controllati dalla paura e dal dolore.
La luce, la speranza, la vita, si facevano così sempre più lontani.
È qui quindi che Levi ci mostra la differenza tra i sommersi e i salvati, tra i quali cerca di barcamenarsi, sospinto anche dall’esempio e dalle parole di alcuni compagni, che continuavano a lavarsi, non per seguire il regolamento, ma per mantenere viva la propria dignità.
Nonostante lo spavento e l’orrore che passa da queste pagine, o meglio parole trasmesseci da Levi, posso azzardare a dire che forse lui è stato tra i più fortunati. Dopo i primi mesi, ha vissuto per un po’ nell’infermeria, godendo di un minimo di tepore in più, senza dover faticare e subire le punizioni e le selezioni. Persino l’esame di chimica che ha dovuto sostenere e che pensava non lo avrebbe portato a nulla, gli ha permesso di entrare nella baracca che più si avvicinava ad una vita normale, come lo era al di fuori del Lager, prima della deportazione. Ha potuto lavorare meno di fatica, in un laboratorio dove poteva starsene al caldo, rispetto ai suoi compagni che erano fuori nel freddo inverno polacco. Levi ha imparato come si vive in un Lager, quali siano le regole ufficiali e quelle che il processo continuo di disumanizzazione e imbestialimento dell’uomo portato avanti dai tedeschi, vivevano tra i deportati e i Kapos stessi, di come quindi fosse difficile contravvenire e allo stesso tempo assolutamente necessario, poiché altrimenti non si sarebbe potuto vivere e sopravvivere.
Veniamo a sapere che, in quelle condizioni che sono così lontane da una società civilizzata, abbia invero ancora bisogno di alcune caratteristiche che la rendano tale, come un fitto e laborioso commercio e scambio interno, nato dalle ruberie dei prigionieri che per sopravvivere, scambiavano pezzi di pane, parti delle proprio zuppe serali, scarti di tabacco, oggetti dei magazzini, materiali che poi servivano a ripagare favori e che, man mano, hanno iniziato ad estendersi all’esterno, tramite gli operai delle stesse fabbriche dove i deportati venivano scortati per lavorare a stretto contatto con i civili tedeschi. Di come quindi anche tra i civili fosse chiara la situazione, la realtà dei Lager, di come venivano trattati gli schiavi, i deportati e in generale gli ebrei, rei di essere tali.
In Se questo è un uomo si legge tutta la discesa precipitosa della condizione umana, che in Auschwitz e negli altri campi portava alla lenta disintegrazione dell’uomo, spogliandolo di se stesso, dei propri ricordi, affetti, proprietà, umanità. Un piano partorito dall’inferno e che trasferisce l’inferno stesso sulla terra. Ma al tempo stesso, proprio tramite il ricordo di Levi, che in queste pagine sembra rinascere vividissimo avanti ai nostri occhi, possiamo scorgere momenti di ritorno alla vita normale, all’uomo che incontra nuovamente l’uomo. Questo si ha, non solo nell’aiuto reciproco che alcuni possono darsi tra loro, ma in maniera più chiara, lo si ha quando i Russi finalmente bombardano e invadono i territori occupati dalla Germania nazista, iniziando a mettere in fuga i tedeschi che, per non lasciare traccia, proprio in quel periodo aumentarono la loro crudeltà.
Invece di scappare e basta, accelerarono i loro piani di purga e purificazione della razza ariana, mandando al gas e al Camino moltissime persone, numeri che al solo leggerli mi hanno spiazzato, fatto girare la testa, lasciato senza parole. Tutto ciò che quegli schiavi hanno costruito, hanno poi dovuto smontarlo, per non far scoprire ai Russi cosa in realtà in quei campi di disumanizzazione accadeva.
La parte più cruda e cruenta, il momento nel quale i tedeschi scappano, è sempre stato raccontato dai Testimoni.
Molti sono i video ripresi e caricati online, nei quali tanti raccontano il momento dell’evacuazione, la cosiddetta Marcia della Morte. I deportati che dovevano seguire i tedeschi e allontanarsi da Auschwitz.
Ma Levi, che al momento aveva la scarlattina, non poté, come molti altri, parteciparvi. Rimasero al campo e proprio lì, mentre i loro aguzzini fuggivano e si ripulivano da ogni traccia di appartenenza alla macchina di distruzione tedesca, per non essere uccisi dai Russi, proprio in quel momento, tutti gli operai schiavi vivevano nel terrore e nella confusione, ma non il nostro Levi che, con l’aiuto dei suoi compagni, cercò di riottenere proprio quello che lì avevano perduto, rubando una stufa, cercando da mangiare, aiutando chi era nel bisogno, cioè tutti.
Finalmente in quel campo di morte, sfruttamento, distruzione, in quelle baracche e piazze che hanno sempre e solo visto appelli e azioni di egoismo, distruzione dell’uomo, atti di oscena e indicibile crudeltà, proprio in quel ground zero di morte, i deportati hanno ritrovato la loro umanità, si sono tesi le mani tra loro, si sono rivestiti di umanità e hanno riscoperto se stessi.
Giusto in tempo, perché i Russi entrassero e, liberando il campo tutto, scoprivano gli orrori di ciò che i tedeschi si erano lasciati dietro; malati, infermi, moribondi, morti, cadaveri, vestiti, scarpe, capelli, denti, otturazioni d’oro, pettini, cucchiai, scodelle… un sistema quasi meccanizzato, dove gli ingranaggi dell’odio erano uomini che mandavano a morte altri uomini.
Ci sarebbe sicuramente molto, ma molto e molto altro da dire. Io penso di aver già detto troppo o troppo poco e male.
Non sono sicuramente all’altezza di raccontare queste brutture, ma da questo momento so cosa è accaduto, con Primo Levi e con le interviste che seguo sempre e sempre riguardo, ho vissuto anche io ciò che i Testimoni continuano a ripetere anche e nonostante la loro età avanzata.
Vorrei davvero tanto trovare il modo, anche nelle mie condizioni economiche, di fare un viaggio in treno, proprio come accadde in passato, con uno dei Testimoni, per arrivare in quei luoghi di indifferenza, per vivere e sentire quello che è successo dalla viva memoria di chi c’è stato e poter caricare sulle mie spalle l’eredità immane e crudele del dolore che nasce quando l’uomo dimentica di avere fratelli e sorelle uguali a lui, nelle loro stesse differenze, e iniziano così a odiarsi, puntarsi il dito, spogliarsi a vicenda e volere l’annientamento l’uno dell’altro, per il malato gusto di pensarsi superiore all’altro.
Vorrei, e spero sia un vostro desiderio così come mi è sembrato di capire e vedere da un mio post su instagram, che il peso della verità trasmessa dai Testimoni, sia anche il mio, che anche io sia testimone di ciò che ho sentito, perché i miei occhi non vedano mai, e con i miei quelli dei miei figli e dei figli dei miei figli, nuovamente un governo, un manipolo di uomini, alzarsi sopra gli altri e indicarsi migliori, perfetti, diversi, superiori ad altri e per questo annientarli per predominare.
Che non ci sia mai più una nuova Auschwitz, che non ci sia mai più una Birkenau, una Buna-Monowitz e così via. Di questo noi siamo testimoni, messaggeri, e dobbiamo tutti essere impegnati affinché non accada, perché l’indifferenza è sempre dietro l’angolo.
Con questo voglio ringraziare tutti i Testimoni e sopravvissuti, in particolar modo, la nostra Senatrice Liliana Segre, e con lei tutti coloro che ancora, nonostante l’età, come Sami Modiano, che quest’anno compirà 91 anni se non sbaglio e che continua a viaggiare.
Non nomino nessun altro, lascio che sia la memoria di tutti a ricordarli, nei commenti qui sotto.
Grazie per avermi fatto compagnia e seguito queste mie parole.
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Vi ringrazio per la visualizzazione e aver passato del tempo assieme.
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